Intervento di Maria Letizia Compatangelo: UNA METAFORA CI SALVERÀ

In data 20 giugno la Federazione Aut – Autori ha invitato a Roma, presso il Palazzo delle Esposizioni, le Associazioni di categoria del Cinema e dell’Audiovisivo, del Teatro, della Radio, della Televisione, delle Immagini, dell’Editoria, della Musica, gli Autori tutti, ad un confronto con le Istituzioni, nazionali ed europee, su un tema di estrema attualità: l’avvento dell’Intelligenza Artificiale

L’obiettivo dell’incontro intitolato L’autore di parola e di immagine tra realtà fattuale e intelligenza artificiale è stato ed è sollecitare l’intervento urgente delle Istituzioni, del Legislatore, sia a livello nazionale sia internazionale, nella consapevolezza del reale valore del lavoro artistico e creativo e la necessità della sua tutela. È fondamentale raccogliere la sfida delle moderne tecnologie, gestirle senza demonizzarle, ponendo sempre l’Essere Umano, con la sua creatività, nella libertà di espressione, protagonista della scena.

A conclusione del Convegno è stato presentato un MANIFESTO che costituirà la base di un Osservatorio con il compito di monitorare costantemente gli sviluppi tecnologici, vigilare sugli abusi che dalle loro applicazioni potrebbero derivare e sollecitare interventi legislativi con un’opera di sensibilizzazione politica affinché la libertà di espressione, i diritti, il lavoro artistico e creativo degli Autori ottengano le giuste tutele.

Qui è possibile vedere la diretta streaming:
https://www.youtube.com/watch?v=j0UVcDNd30E

Condividiamo l’intervento di Maria Letizia Compatangelo, Consigliera UNISCA, Presidente del CENDIC, Vicepresidente di UNA.

UNA METAFORA CI SALVERÀ

di Maria Letizia Compatangelo

Buongiorno a tutti e grazie per essere qui.

Sono una drammaturga, vi parlerò di teatro, ovvero l’ambito creativo meno digitale tra tutti quelli qui rappresentati, e inizio subito affermando che il teatro è un’arte molto conservativa.

Sembra impossibile accoppiare il concetto di arte, che è ricerca e scoperta incessante, e la nozione di conservazione.

Eppure è su questo ossimoro assoluto – arte e conservazione – che il teatro fonda il proprio statuto dall’alba dei millenni. Immutabile e fisso, più della Stella Polare… che infatti svolge il proprio ruolo “solo” dal 1793 avanti Cristo.

Da quando il Sapiens sapiens ha cominciato ad immaginare una realtà metafisica e ad avere la necessità rituale di rappresentarla, il teatro si fonda su 3 elementi:

  • Uno spazio circoscritto
  • Ove si agisce e si dice
  • Con persone che intenzionalmente guardano e ascoltano

A questi tre elementi se ne aggiungono due che caratterizzano la scrittura drammaturgica, che deve

  • Trasmettere emozione
  • Veicolando significato.

Perché scriviamo teatro?  Per raccontare storie che rendano visibile l’invisibile.

E per allontanare la morte, che in forme diverse è sempre al centro del racconto drammaturgico.

Noi umani siamo organismi, “macchine sessuate”, che costantemente cercano, corpo e anima, di allontanare la morte ma che allo stesso tempo vorrebbero conoscerla – e questa conoscenza la possiamo vivere solo attraverso l’arte.

Come diceva Umberto Eco: la letteratura serve ad educare al destino e alla morte.

Noi umani possiamo amare, riprodurci e morire: Eros e Thanatos, due esperienze negate alla macchina… che altrimenti si trasformerebbe in umano.

E infatti non è la macchina che dobbiamo demonizzare – perché la cosiddetta Intelligenza artificiale può avere delle applicazioni di grande rilevanza per lo sviluppo di una società civile – ma gli uomini che la manovrano  e gli enormi interessi economici che nel caso delle I.A. generative di contenuti hanno intrapreso una razzia non controllata e non autorizzata di know-how artistico,  NON per riprodurre l’opera d’arte, come diceva Benjamin, ma per “produrla” al posto degli artisti.

È un’operazione da falsari che andrebbe fermata.

È vero che da una crisi può nascere un’opportunità e che bisogna porsi le domande giuste con mente libera; tuttavia, a me sembra quantomeno imprudente pensare di risolvere il problema trattando con chi sta fabbricando la corda con la quale prima o poi, inevitabilmente, cercherà di impiccarti.

Ma torniamo al Teatro. Quando è nato il cinema, si diceva che lo avrebbe soppiantato, quando è nata la televisione si diceva che sarebbe morto… e invece il teatro è rimasto saldamente in sella alle proprie prerogative, anzi, sono state la nuova arte e la nuova tecnologia a succhiare linfa da lui.

Senza mai dissanguarlo o ucciderlo.

Perché?

Per quei tre elementi insostituibili di cui parlavo prima: spazio – attore – spettatore.

Il corpo e il sangue, la fisicità e l’invisibile, eros e thanatos, in un qui e ora inimitabile e irriproducibile. Non surrogabile.

E non è solo il teatro in quanto evento ad essere irriproducibile – se non facendo comunque teatro – ma anche la sua scrittura.

Perché la vera scrittura teatrale, che deve contenere in sé stessa le proprie possibilità di messinscena – innumerevoli, quante sono le possibili letture che registi, interpreti e spettatori possono dare di un testo, ma non infinite –   custodisce sempre, racchiusa tra le battute, i silenzi e il magico non detto del teatro, una porzione di mistero, a partire dalla quale si allargano e si moltiplicano i significati.

La scrittura teatrale non è tutta dispiegata, per sua natura, e dunque non è mai completamente riproducibile. Non ha un DNA completamente tracciabile.

Non solo. Vive di un paradosso.

Impastata delle possibilità di quella carne e di quel sangue, in una parola della fisicità che l’autore immagina e che l’attore in scena restituirà, c’è la lingua dei personaggi, un ritmo unico, un respiro diverso per ognuno, grazie alla capacità del drammaturgo di non essere i suoi personaggi ma di viverli linguisticamente, dando a ciascuno una voce diversa. L’ho chiamato il “paradosso dell’autore” – e il paradosso è contrario alla logica. Difficile da riprodurre con un algoritmo.

A questo punto, starete giustamente pensando: ok, il teatro è salvo sull’argine più alto, e allora? Salute a voi, ma noi qua siamo in piena alluvione.

E NO, invece, perché quello culturale è un ecosistema in cui ogni cosa che accade al suo interno influenza tutto il resto.

La svalutazione degli artisti, dell’unicità del loro lavoro creativo, è molto pericolosa. 

Se la voce di una doppiatrice viene clonata e invece di 2000 dollari il suo facsimile viene venduto a 27 dollari, ci dobbiamo preoccupare tutti.

Se un editore fa tradurre un romanzo da un computer, ci dobbiamo preoccupare tutti. Perché quel prodotto sarà inevitabilmente meno poetico e artistico e questo a lungo andare compromette il livello di percezione del bello di noi tutti.

Siamo sinceri: pur sapendo che le scarpe italiane sono le migliori del mondo, quante volte, rispetto ad un costo tre, quattro volte inferiore anche noi abbiamo acquistato scarpe di fabbricazione cinese, magari dicendoci: Vabbè, tanto ormai fabbricano tutti in Cina, anche i brand più famosi…?

Siamo tutti consumatori.

Tutti possiamo cedere al fascino di un prodotto che sembra buono e in più a buon mercato.

Ma così dove vanno a finire talento e competenza? Io ho fiducia che il mio lavoro creativo sia unico e irripetibile perché rappresenta il frutto di tutta una vita in cui ho studiato e mi sono preparata per questo, ho lavorato, ho fatto esperienza, ho ricercato incessantemente e ora mi riconosco il diritto di definirmi un’artista… ma che succede se chiunque sappia smanettare un po’ con il computer può mettersi a produrre testi e spacciarli per propri?

Finirà che la gente, disabituata al bello, potrebbe non percepire più le differenze e il pubblico più avveduto cercherà invece delle sicurezze: nel caso del teatro si rifugerà nei classici… il teatro non morirà, ma per la drammaturgia italiana contemporanea sarà ancora una volta il silenzio. E sarebbe un danno per tutti, perché la lingua che l’autore teatrale inventa ogni volta contribuisce all’arricchimento e alla vitalità della lingua di un popolo. 

Dunque, come vedete, il problema della svalutazione del lavoro creativo è dietro l’angolo e riguarda tutti.

Noi dobbiamo combattere in difesa del bello.

Difendendo la qualità del lavoro artistico.

La lingua del teatro è un argine all’impoverimento che i testi prodotti da I.A. rischiano di propalare perché è geneticamente contraria all’omologazione: come sappiamo, il principale strumento di commozione poetica del teatro è la metafora, perché la consequenzialità è la morte del Teatro. E come agisce la metafora? Un tempo la si definiva una similitudine accorciata. Perché la metafora ti costringe a un salto di logica, ad uno scarto, una peripezia: ed è in quel salto che si aprono nuove possibilità, che si aprono nuovi spazi di visione, che si può cambiare il punto di vista, può cambiare il pensiero, può cambiare una vita.

E questo l’Intelligenza Artificiale, basata sulla logica del linguaggio, non lo potrà mai fare.

Certo non si può fermare il progresso e gli enormi capitali che muove, ma bisogna stare attenti.

Noi autori abbiamo il compito di combattere non soltanto in difesa dei nostri diritti, ma soprattutto in difesa del diritto alla bellezza di tutti i cittadini.

E forse una metafora ci salverà.

2 Comments:
18 Luglio 2023

Una magnifica lezione sul teatro. Grazie Letizia.

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